domenica 4 maggio 2008

Omaggio a Pascoli



E' tempo che si ritorni a leggere della poesia.

Scelgo oggi Pascoli

Ne riporto piccoli frammenti:

È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi, come credeva Cebes Tebano che primo in sé lo scoperse, ma lagrime ancora e tripudi suoi.
Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo.
Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello.
Il quale tintinnio segreto noi non udiamo distinto nell'età giovanile forse così come nella più matura, perché in quella occupati a litigare e perorare la causa della nostra vita, meno badiamo a quell'angolo d'anima d'onde esso risuona.

Nebbia

Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l'alba,
da' lampi notturni e da' crolli
d'aeree frane!
Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch'è morto!
Ch'io veda soltanto la siepe
dell'orto,
la mura ch'ha piene le crepe
di valeriane.
Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch'io veda i due peschi, i due meli,
soltanto,
che dànno i soavi lor mieli
pel nero mio pane.
Nascondi le cose lontane
che vogliono ch'ami e che vada!
Ch'io veda là solo quel bianco
di strada,
che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane...
Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch'io veda il cipresso
là, solo,
qui, solo quest'orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.

Allora

Allora...in un tempo assai lunge
felice fui molto; non ora:
ma quanta dolcezza mi giunge
da tanta dolcezza d'allora!
Quell'anno! per anni che poi
fuggirono, che fuggiranno,
non puoi, mio pensiero, non puoi,
portare con te, che quell'anno!
Un giorno fu quello, ch'è senza
compagno, ch'è senza ritorno;
la vita fu vana parvenza
sì prima sì dopo quel giorno!
Un punto!... così passeggero,
che in vero passò non raggiunto,
ma bello così, che molto ero
felice, felice, quel punto!


Alla cometa di Halley

I

O tu, stella randagia, astro disperso,
che forse cerchi, nel tuo folle andare,
la porta onde fuggir dall’universo!

Le stelle, quando la tua face appare,
impallidiscono; ansa nei pianeti
l’intimo fuoco, alto s’impenna il mare.

Escono le sibille dai segreti
antri d’Uràno. In riva dei canali
di Marte, in pianto, passano i profeti.

Pieno di pianto è il cielo de’ mortali
figli del Sole; e sangue rosso piove
nella penombra, a man a man che sali,

degli astri attorno al semispento Giove.

II

O tu, ricordi questa terra nera?
Volgono appena otto anni tuoi, da quando
tu lo vedesti, in una cupa sera,

un della Terra. Andava solo, errando,
senza speranza, col bordone in mano,
ma senza meta, dalla patria in bando

e da sé stesso: e nel cammin suo vano
ei s’arrestava, mentre l’ombra queta
calava, udendo un mesto suon lontano.

E dagli abissi uscita allor, Cometa,
tu fiammeggiavi lunga all’orizzonte.
Udiva il suon lontano di compieta,

che par che pianga. E lo toccasti in fronte.

III

Le stelle impallidirono. Non v’era
altro che te nel cupo cielo esangue
che tu sferzavi con la tua criniera.

Tu tra i pianeti e i Soli, eri com’angue
che uccide e passa. A questa nera Terra
dicevi il tristo ribollir del sangue,

l’ombre vaganti, i gridi da sotterra,
tutti gli affanni, tutte le sventure,
tutti i delitti: incendi, stragi, guerra.

All’uomo, dietro le montagne oscure
e gl’irti rocchi, tu mostravi un luogo:
la sua città. Razzavi come scure

e fumigavi lenta come un rogo.

IV

Egli guardò. Non vide che una selva
oscura, e sopra il sonno delle genti
del mondo reo sentì latrar la belva.

Vide l’abisso con racchiusi i venti,
le fiamme e il gelo, e la perpetua romba
delle grandi acque, e lo stridor dei denti.

Udì l’alto silenzio che rimbomba
eternamente; e il lume del sentiero
scòrse, ch’è tra le stelle e la gran tomba.

Egli era il peregrino del Mistero.
E tu la morte gli accennasti, ed esso
la vide, e l’abbracciò col suo pensiero,

e sì l’uccise nel potente amplesso.

V

Ma tu sdegnosa ti spargevi avanti,
torva Cometa, in un diluvio rosso
le miche accese d’altri mondi infranti.

Dante era l’uomo. E tu dicevi: – Io posso
spezzarti, o Terra. E niuno saprà mai
che v’era un globo, ora da me percosso,

nei freddi cieli. Ti disperderai
come una grigia nuvola d’incenso,
o nera Terra! E tu, Ombra, che stai? –

Stava. Egli solo nello spazio immenso
stava a te contro, a guardia degli umani,
astro di morte. – Io mi son un che penso –

egli diceva – e sempre è il mio domani –.

VI

Tu gli solcasti della tua minaccia
la dura fronte; e il pensator terreno
le mani aperse ed allargò le braccia.

E immobilmente ascese tra il baleno
delle tue scheggie, ascese senza fine,
come in un plenilunïo sereno.

Gli si frangean, col croscio di ruine,
bolidi intorno; in polvere lucente
ridotto il cosmo gli piovea sul crine.

Negli occhi aperti, accese appena e spente,
morian le stelle. E Dante fu nessuno.
Terra non più, Cielo non più, ma il Niente.

Il Niente o il Tutto: un raggio, un punto, l’Uno.
Buona lettura domenicale

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