Due estati
Quando inizio una lettura, la finisco
Faticosa, a tratti difficile, a tratti anche noiosa
Il finale però ripaga ampiamente
E tale finale riporto perchè anche solo una persona in più possa accedervi
"Dove siamo? Che è questo? Dove ci ha sbalestrati il sogno? Penombra, pioggia e fango, rossi bagliori d'incendio nel cielo bigio, che rimbomba senza posa di tuoni e boati, empiendo l'aria umida, lacerata da sibilanti ronzii, dall'arrivo di furiosi latrati da cane infernale, che terminano il loro percorso fra schegge, spruzzi, schianti e fiammate, da gemiti e gridi, da squilli d'una tromba che sta per scoppiare, da rulli d'un tamburo che spinge, spinge alla fretta...
Ecco un bosco dal quale si riversano frottè grigie che corrono, cadono, saltano.
Ecco una catena di colli che si allunga davanti al lontano incendio, la cui bragia si condensa ogni tanto in vampe lingueggianti.
Intorno a noi si stendono i campi ondulati, sconvolti, sterrati. Una strada maestra li attraversa fangosa, coperta di rami spezzati, simile al bosco; una viottola di campagna, solcata, senza fondo, porta ad arco fino ai colli, tronchi si ergono nella pioggia, umidi, scamozzati...
Qui c'è un cartello indicatore,... inutile interrogarlo; l'aria quasi buia lo nasconderebbe, anche se un colpo non l'avesse sbrandellato a frastagli.
Oriente o Occidente? E' la pianura, è la guerra.
E noi siamo timide ombre lungo la via, vergognose nell'ombra, al sicuro, senza nessuna voglia di vanterie e spacconate, condotti qua dallo spirito del racconto per cercare tra i grigi camerati che escono a frotte dal bosco, correndo, cadendo, incalzati dal rullo del tamburo, uno che conosciamo, il compagno di viaggio di tanti annetti, il bonario peccatore, del quale tante volte abbiamo udito la voce, e guardarlo ancora una volta nel viso schietto, prima di perderlo di vista.
Li hanno fatti venire, i camerati, per dare l'ultima spinta al combattimento che è già durato l'intera
giornata e ha lo scopo di riconquistare quelle posizioni sui colli e, dietro, i villaggi in fiamme, perduti due giorni sono.
E' un reggimento di volontari, sangue giovane, studenti la maggior parte, da poco tempo al campo.
Ricevuto l'allarme durante la notte, hanno viaggiato in treno fino al mattino e marciato sotto la pioggia fino al pomeriggio per strade cattive,... senza strade, perché le vie erano intasate, e si dovette prendere per campi e acquitrini, sette lunghe ore, con la mantella imbevuta d'acqua, con lo zaino affardellato, e non è stata una passeggiata di diporto; non volendo perdere gli stivali, bisognava chinarsi quasi a ogni passo, infilare il dito nel cignolo e ritirare cosí il piede dal terreno ammollato.
Cosí ci hanno messo un'ora per attraversare un praticello.
Ora sono arrivati, il sangue giovane ha sopportato tutte le fatiche, il corpo eccitato e oramai sfinito, ma teso e sostenuto dalle piú profonde riserve di vita, non reclama il sonno negato, né il cibo.
Il viso bagnato, lordo di fango, incorniciato dal soggolo, arde sotto l'elmo rivestito di grigio, spostato da una parte.
Arde per lo sforzo e per lo spettacolo delle perdite subite nell'attraversare i pantani del bosco.
Il nemico infatti, sapendo della loro avanzata, ha diretto sulla loro strada un fuoco d'interdizione di
shrapnell e granate di grosso calibro che ha già colpito il gruppo scheggiando il bosco e ora frusta ululando e spruzzando e incendiando l'ampia distesa dei campi arati.
Devono passare, i tremila ragazzi febbricitanti, sono di rinforzo, con le loro baionette devono decidere le sorti dell'assalto alle trincee davanti e dietro la linea dei colli e ai villaggi in fiamme, appoggiare l'avanzata fino a un determinato punto, indicato nell'ordine che il loro comandante tiene in tasca.
Sono tremila, affinché rimangano in duemila quando saranno presso i colli e i villaggi; questo è il
significato del loro numero.
Essi sono un corpo predisposto, anche dopo gravi perdite, ad agire e vincere e a poter salutare la vittoria ancora con un urrà di migliaia di voci,... senza tener conto di quelli che si sono appartati cadendo.
Parecchi si sono già separati, sono caduti durante la marcia forzata, per la quale si sono dimostrati troppo giovani e fragili.
Si fecero sempre piú pallidi, barcollanti, vollero fare ancora uno sforzo ostinato, ma finirono col restare indietro.
Si trascinarono ancora un tratto a fianco della colonna in marcia e, sorpassati da una squadra dopo l'altra, scomparvero dove non era bello giacere.
Poi era giunto il bosco straziato.
Ma i giovani che sbucano in ordine sparso sono ancora numerosi; tremila possono reggere a un salasso e ciò nonostante rimangono un'unità formicolante.
Già allagano la nostra zona molle e battuta, la strada, la viottola di campagna, i campi limacciosi; noi ombre vigili, al margine, siamo in mezzo a loro.
Sul limitare del bosco si continua a inastare la baionetta, con maneggio addestrato, la tromba chiama d'urgenza, il tamburo rulla entro il piú profondo rotolio dei tuoni, ed essi avanzano a precipizio, come vien viene, con grida scomposte, coi piedi pesanti come in un sogno tormentoso, perché le zolle del campo si attaccano plumbee ai goffi stivali.
Si buttano a terra all'urlo dei proiettili in arrivo, per poi rialzarsi e correre avanti, con esclamazioni di giovanile coraggio, perché non sono stati colpiti.
Vengono colpiti, cadono agitando le braccia, con uno sparo in fronte, nel cuore, nelle viscere.
Giacciono col viso nel fango, non si muovono piú.
Giacciono, la schiena sollevata dallo zaino, la nuca affondata nel terreno, e adunghiano l'aria.
Ma il bosco ne manda degli altri che si buttano a terra e saltano e, muti o urlanti, procedono incespicando tra i caduti.
Oh, quei giovani con zaino e baionetta, con mantella e stivali insudiciati! Alla maniera beatamente
umanistica potremmo osservarli sognando anche altre visioni.
Potremmo figurarceli nell'atto di guazzare cavalli alla cavezza in una insenatura marina, di passeggiare con l'innamorata lungo la spiaggia, con le labbra all'orecchio della tenera sposa, o anche nel felice e amichevole compito d'insegnarsi a vicenda a tirare con l'arco.
Invece giacciono qui col naso nel fango.
Che lo facciano con gioia, sia pure in angosce infinite e nell'inenarrabile nostalgia della mamma, è un'altra questione, sublime e umiliante, e non dovrebbe essere motivo di portarli a questo sbaraglio.
Ed ecco il nostro conoscente, ecco Hans Castorp! Già da lontano lo abbiamo riconosciuto dalla barbetta che si è lasciato crescere alla tavola dei "russi incolti".
E' tutto bagnato e arde, come tutti.
Corre coi piedi appesantiti dalle zolle, bilanciando il fucile nella mano abbassata.
Ecco, calpesta la mano di un camerata caduto, con lo stivale chiodato preme quella mano dentro al terreno pantanoso, coperto di rami scheggiati.
Ciò nonostante è lui.
Canta persino! Come nell'eccitazione intontita, senza pensiero, si canta a fior di labbra senza saperlo, cosí egli usa il respiro strapazzato per cantare tra sé, a mezza voce: Ich schnitt in seine Rinde so manches liebe Wort...
Cade.
No, si è buttato ventre a terra, perché un cane infernale arriva ululando, una grossa granata dirompente, un ributtante pan di zucchero dell'abisso.
Giace con la faccia nel fango freddo, le gambe divaricate, i piedi distorti, coi tacchi all'ingiú.
Il prodotto d'una scienza abbrutita, carico del peggio, affonda nel terreno a trenta passi di fianco a lui come il diavolo in persona, ed esplode laggiú con orrenda strapotenza, sollevando nell'aria una fontana, alta come una casa, di terriccio, fuoco, ferro, piombo, e brani di carne umana.
Là infatti stavano coricati due amici, si erano buttati giú insieme nel pericolo: ora sono mischiati e
scomparsi.
Oh vergogna della nostra sicurezza nell'ombra! Via, via! Questo non lo vogliamo narrare! E' stato colpito il nostro conoscente? Un istante ha creduto di esserlo.
Una grossa zolla l'ha preso allo stinco, gli ha fatto male, sí, ma è roba da ridere.
Egli si rialza, prosegue barcollando, zoppiconi, coi piedi pesanti di terra, cantando incosciente: Und seine Zweige rauschten, Als riefen sie mir zu...
E cosí nel trambusto, nella pioggia, nel crepuscolo, lo perdiamo di vista.
Addio, Hans Castorp, schietto pupillo deUa vita! La tua storia è terminata.
L'abbiamo narrata sino alla fine; non fu né divertente né noiosa, fu una storia ermetica.
L'abbiamo raccontata per se stessa, non per amor tuo, poiché tu eri semplice.
Ma in fin dei conti era la storia tua; siccome è toccata a te, devi aver avuto una certa accortezza, e noi non neghiamo la simpatia pedagogica che ci prese nel narrarla e potrebbe anche indurci a passare delicatamente un polpastrello sull'angolo d'un occhio al pensiero che non ti vedremo e non ti ascolteremo in avvenire.
Addio,... sia che tu sopravviva o muoia! Le tue probabili sorti sono brutte; la mala danza nella quale sei trascinato durerà ancora qualche anno, e noi non ci sentiamo di scommettere forte che ne uscirai salvo.
Francamente non ci preoccupiamo gran che se la questione rimane aperta.
Avventure della carne e dello spirito che hanno potenziato la tua semplicita, ti hanno permesso di
superare nello spirito ciò che difficilmente potrai sopravvivere nella carne.
Ci sono stati momenti in cui nei sogni che governavi sorse per te, dalla morte e dalla lussuria del corpo, un sogno d'amore.
Chi sa se anche da questa mondiale sagra della morte, anche dalla febbre maligna che incendia
tutt'intorno il cielo piovoso di questa sera, sorgerà un giorno l'amore?"